Il Parlamento

 

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130.

 

                      I

Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
da Porta Nova a briglie abbandonate.
"Popolo di Milano", ei passa e chiede,
"fatemi scorta al console Gherardo."
Il consolo era in mezzo de la piazza,
e il messagger piegato in su l’arcione
parlò brevi parole e spronò via.
Allor fe’ cenno il console Gherardo,
e squillaron le trombe a parlamento

 

                    II

Squillarono le trombe a parlamento:
ché non anche risurto era il palagio
su’ gran pilastri, né l’arengo v’era,
né torre v’era, né a la torre in cima
la campana. Fra i ruderi che neri
verdeggiavan di spine, fra le basse
case di legno, ne la breve piazza
i milanesi tenner parlamento
al sol di maggio. Da finestre e porte
le donne riguardavano e i fanciulli.

 

                    III

"Signori milanesi," il consol dice,
"la primavera in fior mena tedeschi
pur come d’uso. Fanno pasqua i lurchi
ne le lor tane, e poi calano a valle.
Per l’Engadina due scomunicati
arcivescovi trassero lo sforzo.
Trasse la bionda imperatrice al sire
il cuor fido e un esercito novello.
Como è coi forti, e abbandonò la lega."
Il popol grida: "L’esterminio a Como."

 

                    IV

"Signori milanesi," il consol dice,
"l’imperator, fatto lo stuolo in Como,
move l’oste a raggiungere il marchese
di Monferrato ed i pavesi. Quale
volete, milanesi? od aspettare
da l’argin novo riguardando in arme,
o mandar messi a Cesare, o affrontare
a lancia e spada il Barbarossa in campo?"

 

                    V

Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
Di ben tutta la spalla egli soverchia
gli accolti in piedi al console d’intorno.
Ne la gran possa de la sua persona
torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano
la barbuta: la bruna capelliera
il lato collo e l’ampie spalle inonda.
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
È la sua voce come tuon di maggio.

 

                    VI

"Milanesi, fratelli, popol mio!
Vi sovvien"
dice Alberto di Giussano
"calen di marzo? I consoli sparuti
cavalcarono a Lodi, e con le spade
nude in man gli giurâr l’obedienza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno,
ed a i piedi, baciando, gli ponemmo
i nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerì le chiavi
di Milano affamata. E non fu nulla."

 

                    VII

"Vi sovvien" dice Alberto di Giussano
"il dì sesto di marzo? A piedi ei volle
tutti i fanti ed il popolo e le insegne.
Gli abitanti venian de le tre porte,
il carroccio venìa parato a guerra;
gran tratta poi di popolo, e le croci
teneano in mano. Innanzi a lui le trombe
del caroccio mandâr gli ultimi squilli,
innanzi a lui l’antenna del carroccio
inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi."

 

                    VIII

"Vi sovvien?" dice Alberto di Giussano:
"vestiti i sacchi de la penitenza,
co’ piedi scalzi, con le corde al collo,
sparsi i capi di cenere, nel fango

c’inginocchiammo, e tendevam le braccia,
e chiamavam misericordia. Tutti
lacrimavan, signori e cavalieri,
a lui d’intorno. Ei, dritto, in piedi, presso
lo scudo imperïal, ci riguardava,
muto, col suo diamantino sguardo."

 

                    IX

"Vi sovvien," dice Alberto di Giussano,
"che tornando a l’obbrobrio la dimane
scorgemmo da la via l’imperatrice
da i cancelli a guardarci? E pe’ i cancelli
noi gittammo le croci a lei gridando
— O bionda, o bella imperatrice, o fida,
o pia, mercé, mercé di nostre donne! —
Ella trassesi indietro. Egli c’impose
porte e muro atterrar de la due cinte
tanto ch’ei con schierata oste passasse."

 

                    X

"Vi sovvien?" dice Alberto di Giussano:
"nove giorni aspettammo; e si partiro
l’arcivescovo i conti e i valvassori,
venne al decimo il bando — Uscite, o tristi,
con le donne co i figli e con le robe:
otto giorni vi dà l’imperatore —,
E noi corremmo urlando a Sant’Ambrogio,
ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,
via ci cacciaron come can tignosi."

 

                   XI

"Vi sovvien" dice alberto di Giussano
"la domenica triste de gli ulivi?
Ahi passion di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una
crosciar vedemmo le trecento torri
de la cerchia; ed al fin per la ruina
polverosa ci apparvero le case
spezzate, smozzicate, sgretolate:
parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l’ossa ardean de’ nostri morti."

 

                    XII

Così dicendo alberto di Giussano
con tutt’e due le man copriasi gli occhi,
e singhiozzava: in mezzo al parlamento
singhiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento
trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e dai veroni,
pallide, scarmigliate, con le braccia
tese e gli occhi sbarati al parlamento,
urlavano — Uccidete il Barbarossa —.

 

                    XIII

"Or ecco," dice Alberto di Giussano,
"ecco, io non piango più. Venne il dì nostro,
o milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m’asciugo gli occhi, e a te guardando,
o bel sole di Dio, fo sacramento:
diman da sera i nostri morti avranno
una dolce novella in purgatorio:
e la rechi pur io!" Ma il popol dice:
"Fia meglio i messi imperïali. Il sole
ridea calando dietro il Resegone.

I. Sta Federico ecc.: essenziale e vigoroso, il verso d’apertura delinea la sempre paurosa potenza di Federico Barbarossa e insieme fa quadro. Disceso per la quinta volta in Italia nell’ottobre 1174, dopo avere vanamente tentato di assalire Alessandria ed essersi fortunosamente liberato dalla cerchia dei "latini acciari" nell’aprile 1175, secondo cantano le quartine Su i campi di Marengo, l’imperatore riparò dapprima a Pavia, poi, nella primavera del 1176, a Como, per raccogliervi gli eserciti di rinforzo provenienti dalla Germania e in un secondo tempo per unirsi alle milizie alleate di Pavia e del marchese Guglielmo di Monferrato. La scena è a Milano, alla vigilia della battaglia di Legnano (29 maggio 1176).
3. da Porta Nova: una delle sei porte che aveva allora Milano, quella verso Monza e Lecco (le altre: Romana, Ticinese, Comasca, Vercellina, Orientale). Da Monza o Lecco, non da Como, viene il messaggero, che dunque reca a Milano un messaggio dei confederati lombardi, non un’intimazione dell’imperatore, come immaginava il Manzoni. Lo confermano d’altra parte i versi originari: "Ed ecco un messager lombardo a briglia / abbandonata entrar da Porta Nova"; e lo ha dimostrato il Gandiglio nella sua felice analisi del contesto carducciano. — a briglie abbandonate: a briglia sciolta, e perciò a gran carriera.
4. passa e chiede: passa chiedendo, chiede senza fermarsi.
5. fatemi scorta: guidatemi. — al: fino al, dal — console Gherardo: personaggio storico, il più insigne cittadino milanese del tempo: Gherardo o Gerardo Cagapisto, detto abbreviatamente Pisto, giureconsulto e oratore, più volte console di Milano tra il 1150 e il 1179, anche se non proprio nell’anno di Legnano, e rappresentante dei Milanesi in tutti gli atti importanti della Lega Lombarda.
6. Il consolo: la forma latineggiante (mentre dicono "console" i vv. 5 e 9 e la prima redazione; "In mezzo de la piazza il console era") serve ad evitare i due e consecutivi, ma anche ritaglia la parola con aulica nettezza.
7. arcione: la parte anteriore della sella; per sineddoche, sella.
8. parlò: transitivo: disse, — spronò via: "Il cenno al cavallo, che dice anche l’impazienza del cavaliere, e nulla più. La corsa è tutta in quel via, come uno non anche mosso che è già lontano".
9. fe’ cenno: fece un gesto di comando, diede ordine ai trombettieri del Comune.
10. a parlamento: chiamando il popolo a riunirsi in piazza.
11. Squillarono ecc.: ripresa, con lievi varianti ma con efficace effetto complessivo, del v. 10: la quale "accentua il carattere di epopea popolaresca, la sciolta narratività del racconto detto e non letto (per così dire)".

12-20. ché non anche ecc.: il parlamento viene convocato all’aperto con squilli di tromba perché, dopo la demolizione di Milano ordinata dal Barbarossa quattordici anni innanzi (1162), non erano stati ancora (anche) ricostruiti il palazzo del Comune (con espressione nobilmente arcaica, palagio) e la sala delle pubbliche riunioni (arengo) e la torre con la campana che chiamasse i cittadini a raccolta. Accenna sì il poeta al palazzo pubblico, poi della Ragione, che verrà edificato soltanto nel 1233, su’ gran pilastri; nel Broletto Nuovo, poi piazza dei Mercanti, traendo egli nozione e suggestione storica da parole di G. Giulini, autore di Memorie spettanti alla storia [...] di Milano nei secoli bassi (1870); "ampio edificio quadrilungo, il quale di sotto ha un gran portico con due ordini d’archi sostenuti da grossi pilastri". E dai particolari delle fonti la suggestione s’allarga a visione, a pittura, della città in rovina, tra il nero dei ruderi e il verdeggiar dei rovi, in quella misera piazza attorniata da casipole di legno. — Da finestre e porte ecc.: "queste donne, questi bimbi, fermi su le porte, affacciati alle finestre che sono appena più su delle porte, danno a questa adunata un aspetto novissimo e come un tono domestico e dimesso, e un’aspettazione più dolorosa. Gli ultimi sono già fuori".
22-24. La primavera in fior ecc.: la primavera matura conduce tra noi, nelle nostre terre, torme di tedeschi, come è accaduto tanto spesso, come accade secondo il costume delle genti ermaniche (pur come d’uso). Evidentemente il console riferisce ai suoi concittadini, qui e nei versi successivi, quanto ha saputo dal messaggero, e così ora s’intende il significato di quel messaggio, che è d’informazione e d’allarme: scendendo dalle Alpi sono arrivati rinforzi all’imperatore, e tutto l’esercito imperiale è in movimento; preparatevi a ricevere questa nuova invasione e aggressione, e, se potete, prevenite e attraversate le mosse del nemico. — lurchi: ingordi, rapaci, come lupi che alla buona stagione escono dalle loro tane per scendere a valle e far bottino.
25-26. Per l’Engadina ecc.: due arcivescovi ghibellini, Filippo di Colonia e Wichmann di Magdeburgo, scomunicati dal papa Alessandro III, nemico del potere imperiale e sostenitore della Lega (ma qui, nel discorso del console, la parola "scomunicati", come oserva il Valgimigli, "aggiunge al suo senso specifico un tocco iroso e ingiurioso"), guidarono gli eserciti (trasser lo sforzo, bella espresione arcaica, ove "sforzo" significa forza raccolta d’armi e d’armati, esercito, come spesso "vis" latino) per l’Engadina, cioè per la valle dell’Inn, fino al lago di Como. In verità i rinforzi attesi dall’imperatore discesero, pare, per la valle del Reno e poi per quella del Ticino, se Federico uscì da Como per andare loro incontro fino a Bellizona: "Sarebbe una piccola offesa alla verità poetica".
27-28. Trasse la bionda imperatrice ecc.: Beatrice di Borgogna, seconda moglie di Federico, venne a sua volta in Italia, recando all’imperatore se stessa e un altro esercito, composto di nuove leve e perciò fresco e gagliardo (novello). Senonché nella primavera del 1176 l’imperatrice doveva già essere in Italia accanto al marito, e all’estate del 1159, al tempo della seconda spedizione in Italia di Federico e dell’assedio di Crema, le cronache ascrivono invece la discesa di ici nella penisola con un nuovo esercito: altra e certo consapevole infrazione di Carducci alla storia; ché, come sempre o quasi sempre, spostamenti di tempi e concentrazioni di fatti rispondono a fini estetici e drammatici, in una coincidenza di verosimile storico e vero poetico. Peraltro non insisterei eccessivamente sulla gentilezza e sul fascino dell’"eterno femminino regale" connessi con l’aggettivo bionda, come fa il Valgimigli, né essendo quell’aggettivo pronunciato dal console di Milano, vi avverto, come suggerisce il De Robertis, un lieve sapore d’ironia. Bionda è detta l’imperatrice dalle antiche cronache, e bionda è tipico attributo, da canzone di gesta e da ballata romantica, di una donna nordica e di nobile sangue; così come, più avanti, la bruna chioma di Alberto di Giussano entra nella caratterizzazione tipica del prode guerriero latino.
29-30.Como è co’ i forti ecc.: diserzione, tradimento di Como: ha abbandonato la Lega passando dalla parte del più forte, l’esercito imperiale. Donde un grido di esecrazione e una minaccia di distruzione (esterminio, altro arcaismo), — Como: "a prima era all’inizio del verso, qui è alla fine: come un suggello e una minaccia decisa".
32. fatto lo stuolo: "altra espressione tecnica dell’antico linguaggio militare": raccolte e ordinate le sue schiere.
33-38. l’oste: altro arcaismo, "che accentua la storicità e la poesia". — il marchese di Monferrato ed i pavesi: che, al pari di Como, avevano abbandonato la Lega e fatto causa comune con l’imperatore. — Quale volete: quale cosa volete, quale proposta scegliete. E tre sono le proposte che ora il console enuncia: testare sulla difensiva, venire a patti, affrontare il nemico in campo aperto. — l’argin novo: quello che aveva sostituito la cinta difensiva distrutta. Così, in armi dietro i bastioni, i Milanesi avevano accolto Federico nel 1158 e nel 1159, ricevendone l’una e l’altra volta assalto e assedio. — mandar messi: che significa inchinarsi all’autorità e ai diritti dell’imperatore (Cesare) e conclusivamente accettare il solo accordo possibile con lui, la resa. La seconda proposta è "fatta senza persuasione, anzi, per incitamento e inasprimento, onde poi la terza, la decisiva" (Valgimigli). — il Barbarossa: ora Federico è designato col nomignolo, che riduce a un tratto la maestà prima conferitagli dal titolo di Cesare e lo riconduce al ruolo di tiranno, di nemico.
39-40. A lancia e spada ecc.: "non voglio lasciare di mettere in rilievo la diversa interpunzione del v. 38 e del v. 40, che pure nelle parole uguali; ma quello deve correr rapido, senza spezzamenti, dietro alla foga della conclusione in forma interrogativa, e questo, con le pause delle due virgole, riproduce la risolutezza della risposta che rimbomba come tuono nell’assemblea" (Candiglio, cfr., p. 49).
41. Alberto di Giussano: il giovane capitano della Compagnia della Morte, drappello di guerrieri che avevano giurato di vincere o di morire. Le cronache parlano dell’alta statura e della forte corporatura di alberto, e da queste replicate notizie, che forse si uniscono a momenti e immagini di letteratura medioevale, nasce e campeggia il ritratto monumentale della quinta strofa.
42. tutta la spalla: cfr. l’immagine di Franceschino Malaspina in I.G.I. XIV Poeti di parte bianca. 42-43: "tu dritto in piedi tutta / ergei la testa su i minor baroni". — soverchia sopravanza. Il Valgimigli vi riconosce una reminiscenza dei Fatti di Enea, là dove frate guido da Pisa parla di Turno: "Era lo più bello di tutta Italia ed era sì grande che dalle spalle in su era maggiore di tutti gli altri uomini".
43. gli accolti ecc.: i cittadini riuniti intorno al console: in piedi, a definire interamente la statura di Alberto.
45. torreggia: si leva come torre, domina come torre: all’altezza si unisce la robustezza.
46. la barbuta: elmo prolungato nella parte anteriore fino a coprire tutto il volto. Ma Alberto è a testa scoperta, e quell’"elmo in mano è solo come un ricordo di più, o un annuncio, di guerra". Ed è un tocco che accresce la storicità del quadro forse senza rispettare la storia, che molto più tardi, a quanto pare, i guerrieri milanesi adottarono un simile elmo. Così come, subito appresso, la cappelliera che scende copiosa sul collo e sulle spalle di Alberto richiama certo tempi più avanzati, addirittura, in Milano, il secolo seguente. I consueti anacronismi carducciani, felicemente poetici e rappresentativi.
47. lato... ampie: si accentua il ritratto in ampiezza e gagliardia.
48. chiara onesta: due aggettivi che ai tratti tipici ed esteriori del poderoso guerriero lombardo aggiungono la franchezza e la nobiltà dell’espressione, e umanizzano e rischiarano il ritratto incontrandosi con la luce del sole che lo colpisce.
50. È la sua voce ecc.: "la voce ha l’impeto e la freschezza di un tuono di maggio che annunzia tempesta ma anche promette un rinverdire della terra e del ciclo".
51. Milanesi ecc.: indirizzandosi ai Milanesi, a esordio della sua commossa e impetuosa orazione, Alberto rivela un’immediatezza e un trasporto d’amor fraterno che certo non aveva il netto e composto "Signori milanesi" del console.
52. Vi sovvien: vi torna in mente. Espressione ripetuta altre cinque volte al principio di ognuna delle strofe successive, ognuna delle quali rievoca un episodio di umiliazione subita dai Milanesi.
53. calen di marzo: il primo marzo del 1162, quando Milano, stretta d’assedio e allo stremo delle forze, mandò all’imperatore acquartierato in Lodi gli otto consoli che con le spade sguainate gli giurarono obbedienza, cui seguirono, tre giorni dopo, trecento cavalieri che ai piedi dell’imperatore deposero gli stendardi, e mastro Guitelmo (o, come dice un cronista, Guintelino) che a lui consegnò le chiavi della città. — sparuti: emaciati, abbattuti, per la fame patita e la pena del momento.
55. obedienza: "per effetto della dieresi ha suono stanco, e dice prostrazione grande, sacrificio e strazio".
56. Cavalcammo: "o ci fosse anche Alberto fra quei trecento, o sè accomuni, nel racconto e nell’animo, con quelli", come dicono i cronisti, non "gli stendardi", come interpreta il Valgimigli, che ama credere in un altra voluta deviazione di Carducci dalle fonti storiche.
60. E non fu nulla e non bastò.
62. il dì sesto di marzo: quando l’imperatore volle ai suoi piedi tutti i militi e tutto il popolo e tutte le insegne: un atto di sottomissione generale.
64-65. veniam... venia: voce verbale ripetuta, lenta, che ha suono e figura di esodo doloroso, di processione interminabile. — de le tre porte: ovvero dei tre quartieri di porta Vercellina, di porta Comasca e di porta Nuova. — il carroccio: il celebre carro da guerra, simbolo della libertà comunale e immagine sacra della città al seguito dei suoi combattenti: aveva quattro ruote, era ricoperto da un panno coi colori della città, era trainato da coppie di buoi anch’essi ricoperti da gualdrappe con gli stessi colori, e recava al centro un altare, una croce e un’antenna col gonfalone e in cima una campana che univa il suo martellante suono agli squilli delle trombe di bronzo; sul grande palco stavano, intorno al sacerdote, i trombettieri e militi scelti. — parato a guerra: proprio apparecchiato e addobbato come quando veniva condotto in battaglia, e qui per esser condotto alla resa.
66. gran tratta poi di popolo: moltitudine grande, quella formata dagli abitanti degli altri tre quartieri cittadini. Cfr. Dante, Inf., III, 55-56: "e dietro le venìa sì lunga / di gente". Ma "gran tratta di popolo" è nelle pagine di uno degli storici ottocenteschi che Carducci, insieme ai cronisti medioevali, riprendeva nella trama storica nonché nei vocaboli e nelle espressioni particolari con avvedutezza d’artista.
68. gli ultimi squilli: dopo tanti squilli di esaltazione e di gloria cittadina, gli squilli della resa al principe vittorioso, e implicitamente di saluto alla libertà ormai perduta.
70. Ei toccò i lembi: in segno di possesso.
72-76. vestiti: indossati. I sacchi della penitenza s’integrano con i piedi scalzi, le corde al collo, il capo cosparso di cenere, i ginocchi piegati nel fango: un climax di dolore e furore che, mentre incorpora e dissolve l’irrilevante sconnessione cronologica degli episodi (al marzo 1162 son riportati fatti del settembre 1158 e del dicembre 1163), prosegue l’andamento della settima strofa (dove la parola "carroccio" vien ripetuta tre volte a sottolineare l’umiliazione e la profanazione della patria) e volge alla "risoluzione irrefrenabile e invincibile". — chiamavam: invocavamo.
80. diamantino: freddo e duro come il diamante. Impassibile e inflessibile il solo imperatore, mentre signori e cavalieri del suo séguito, impietositi da tanta miseria, piangevano. Così l’Epistula di Bucardo, fonte sicura del poeta: "sed solus Imperator faciem suam firmavit ut petram".
82. tornando a l’obbrobrio: rinnovandosi l’umiliazione. — la dimane: il giorno dopo. In verità quello stesso giorno i Milanesi, sperando di ottenere misericordia, "cercarono di giungere alla presenza della imperatrice e, non avendo potuto, gettaron pe’ cancelli le croci, che avevan recate seco, verso l’appartamento di lei". Lo spostamento di un giorno è qui dovuto a cattiva interpretazione dei cronisti antichi da parte degli storici ottocenteschi; ma nella rappresentazione poetica serve ad unire questo episodio, il più pietoso e patetico, al diniego, alla condanna, brutale e feroce, dell’imperatore.
86-87. bionda... bella... fida... pia: sono gli attributi espressi dalla Historia di Ottone Morena: "Beatrix... fuit..; capillis fulgens ut aurum, facie pulcerrima.... viro suo plenissime subdita, eumque timens ut dominum et diligens omnifariam ut virum, ... Dei cultrix"; e bionda e fida richiamano, nel contesto accesamente patetico delle suppliche di una folla umiliata e disperata, le parole del console ai vv. 27-28. — mercé: pietà. — di nostre donne: "se non di noi, — par che dicano, — di loro almeno, che sono, come te, donne e madri".
88. Ella trassesi indietro: "quasi impietosita o per sfuggire a una possibile promessa d’interessamento". E inoltre si commenta: "non diritta restando, in piedi, come il suo re (troppo debole una donna per non sentirsi piegate i ginocchi, vinta da tante voci di pietà!), ma più crudele forse in quel suo vile ritrarsi sdegnata contro il suo stesso cruccio": o anche: "è un gesto di rifiuto; ma senza sdegno; quasi con gentilezza e pudore; quasi rammaricandosi di non poter fare altrimenti". Ma forse si dice troppo, con disquisizioni che suonano capziose e non riescono omogenee tra loro. L’imperatrice si ritrae, perché sente quella gente estranea a sé e ribelle al marito, e sa che a questi nemici il marito non perdona. Come poi il De Robertis riconosca un nesso logico-narrativo tra il ritrarsi di lei e le decisioni di lui (Egli c’impose: "ed egli, allora, senza più esitare, e come fatto forte dal diniego di lei, impose ecc."), come se l’una e l’altro fossero presenti sulla stessa scena, è difficile spiegare.
89. le due cinte: la doppia cintura fortificata dei bastioni di Milano.
90. tanto ch’ei ecc.: "verso che specialmente per l’accento ribadito sulla sesta e settima sillaba ha un suo andamento prepotente e scolpito, e vasto". — con schierata oste: col suo esercito schierato in ordine di battaglia. Cfr. v. 33.
92-93. nove giorni ecc.: i milanesi attesero a lungo, e intanto partirono da Milano l’arcivescovo Oberto da Pirovano ed altri ecclesiastici e notabili, sospettati poi di tradimento (in verità Federico risparmiò le loro case; e il termine feudale valvassori, vassalli minori, ne ribadisce la sudditanza all’imperatore). Arrivò infine un bando imperiale, implacabile: dava ai Milanesi otto giorni di tempo per abbandonare la città. Nella realtà storica non fu di nove giorni, ma di undici l’attesa dei Milanesi, e il bando arrivò non il decimo, ma il dodicesimo giorno: le consuete discrepanze tra le minuzie, storiche e la pienezza e continuità poetica. — tristi: maledetti, sciagurati.
97. a Sant’Ambrogio: alla chiesa di Sant’Ambrogio, patrono della città.
98. ci abbracciammo ecc.: "secondo l’uso antico di abbracciarsi agli altari implorando".
100. come can tignosi: "L’espressione popolaresca [...] rende anche più manifesta e tragica la situazione. Tanto più ammirabile l’impasto linguistico, ora popolaresco, ora classicheggiante, ora colloquiale e quasi prosastico, e sempre straordinariamente fuso".
102. la domenica triste ecc.: il primo di aprile del 1162, ultimo giorno di una settimana che aveva visto la distruzione di gran parte dei quartieri milanesi ad opera degli alleati lombardi dell’imperatore, Comaschi e Pavesi e Lodigiani. Rimaneva ancora la cerchia interna delle mura con le sue innumerevoli torri: fu abbattuta proprio quel primo giorno d’aprile, domenica degli ulivi, e così si consumò quella settimana di passione che unì il dolore della città al dolore di Cristo.
104. i quattro Corpi santi: forse i sobborghi in cui erano stati raccolti in parte i profughi milanesi.
106-107. al fin: al termine della distruzione. — per la ruina polverosa: attraverso la nube di polvere sollevata dai crolli.
108. spezzate, smozzicate, sgretolate: "osserva la progressione, dove se spezzato fa pensare a qualcosa che sta saldo, in piedi, e che a un tratto rovina, smozzicate dice lo scempio, sgretolate la distruzione ultima".
110. Di sotto, l’ossa ecc.: "sopra, l’ossa della città distrutta: sotto, l’ossa dei morti. Morte sopra morte".
112-114. con tutt’e due le man ecc.: quasi per non vedere la desolante realtà, e ad un tempo per coprire, lui guerriero, lo spettacolo del pianto. Ma quel pianto, che poi rompe ogni ritegno (singhiozzava... come un fanciullo), "è il culmine dell’eloquenza d’Alberto, e riesce per ciò più efficace di qualunque altra parola ch’egli avesse soggiunta. Da ciò l’allora del v. 115").
115. Ed allora: dopo avere espresso a gran voce la sua volontà in risposta alle parole del console, e dopo avere ascoltato in commosso silenzio le tragiche evocazioni di Alberto, il parlamento, cioè tutto il popolo milanese, raccogliendo il pianto del suo eroe e mutandolo in esplosione di sdegno e d’ira, "rientra nell’azione del poema": e col suo eroe domina le ultime due strofe.
116. quasi un fremito di belve: "ma sono belve che nulla persono della loro perfettissima e generosa umanità, e il cui coraggio tranquillo ed ironico si esprime al termine della strofa seguente, nell’augurio abbiano ad andare in purgatorio gli uomini dell’imperatore...".
117. da le porte... da i veroni: riprende il v. 19 ("Da finestre e porte"). E balconi, o più semplicemente finestre, sono, con colorito romanticamente letterario.
121. Or ecco: è il momento in cui Alberto si placa, confortato dall’impetuoso e generale consenso.
122. il dì nostro: il giorno della nostra riscossa e della nostra gloria.
125. o bel sole: cfr. vv. 19 e 48. ancora il sole, qui segno di Dio, e sempre simbolo di libertà. — sacramento: latinismo: giuramento.
126. diman da sera: domani, verso sera. Ché basterà un giorno, e sarà certo l’indomani, per combattere e vincere il Barbarossa.
127. in purgatorio: "non sembra sia stata avvertita la finezza religiosa e modesta di quest’accenno al Purgatorio. Alberto di Giussano si considera umilmente, cristianamente peccatore; e si crede salvo solo per le preghiere dei cittadini e per essersi offerto e sacrificato alla patria".
128. e la rechi pur io: e sia pure io stesso, caduto in battaglia, a recarla. — Ma il popol: ma il popolo, di rimando.
129-130. Fia... imperïali: sarà meglio che la rechino, messaggeri in Purgatorio, i nemici uccisi. Ironia ed augurio; di fatto quel preziosamente e quasi impercettibilmente arcaico fia, non equivale a "sarà", ma ad un congiuntivo ottativo. — Il sole: a chiudere la canzone ricompare il sole, nel suo alto significato religioso e patriottico e nella gloria del tramonto. — ridea: splendeva, e pareva benedire il giuramento e partecipare all’esaltazione di popolo. — il Resegone: monte delle prealpi lombarde che domina il ramo orientale del lago di Como, ad est di Lecco, e fu immortalato dalla descrizione del lago e delle terre e dei monti circostanti nel cap. I dei Promessi sposi (" [...] due monti contigui, l’uno detto di San Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune". In lombardo "sega" si dice "resega"). Per la seconda volta il monte lombardo è stato immortalato in quest’ultimo verso della Canzone di Legnano, insieme al più clamoroso errore geografico di Carducci poeta: "il Carducci aveva bisogno, per ragion poetica, d’un sole occiduo che splendesse come augurio e promessa di vittoria dopo la commossa orazione di Alberto di Giussano, e, poco familiare coi luoghi, lo fece sbadatamente calare dietro una montagna ch’è invece a oriente della città, o al più a nord-est" (Trompeo, La geografia del Cardeucci, in ip., L’azzurro di Chartres 1958, p. 249). Di questo errore, come sapiamo, Carducci fu informato, ma non si preoccupò di correggere: e l’alterazione geografica si allinea alle tante altre trasgressioni e mutazioni storiche, piccole o grandi, qui e altrove, caratterizzandosi e legittimandosi appieno nella logica della poesia, nella verità della fantasia.