VENTO DELL'EST (Messaggio d'amore)

Vento che dalle lontane steppe di Russia,
con mille e più voci urlanti
discendi sul bel mare d’Italia,
come dolce brezza ti distendi.
Vento dell’Est, oggi porti
un Messagio d’Amore e di Pace,
non più di Guerra, dettate ed affidate
dai nostri soldati che da tempo immemore
giacciono in quelle lontane terre.
Voi che avete perduta una cara persona,
ascoltate tra quelle mille voci la sua voce
che il vostro cuore saprà discernere...
un volto caro partito per la guerra
e mai più ritornato.
Ora il vento dell’Est comprende
il vostro dolore, il vostro dramma...
Chiede perdono ed un sorriso accarezzando
con il suo alito il vostro dolce e mesto viso...
Il Vento dell’Est ora parla in lingua Russo-Ucraina
e dice... Italianski, Dobre, Carasciò... eppoi
in perfetto dialetto Meneghino-Milanese... aggiunge
Voremes Semper Ben... bella Italia, Dasvidania!


Pervenutaci in redazione il 15 giugno 2001 direttamente dalle mani del
"giovane alpino" Antonio Valentini classe 1911 - reduce di Russia


La Tragedia dell' ARMIR

Il duce è molto eccitato quando i primi contingenti italiani partono per il fronte russo, conta di giocare un ruolo importante nella battaglia contro il comunismo e non pensa che i suoi uomini non sono equipaggiati a sufficienza. L’estate del ’42 trascorre con alterne vicende poi, inaspettata, con la stagione fredda, si scatena la controffensiva.

Mussolini viene informato dell’aggressione tedesca alla Russia la notte sul 22 giugno 1941, non più di mezz’ora prima che le truppe germaniche–e le unità satelliti romene, ungheresi e slovacche–passino all’attacco su tutto il fronte dal Baltico al Mar Nero. È l’ambasciatore Von Bismarck a svegliare Ciano e a consegnargli la lunga missiva scritta dal Fuhrer per il suo collega dittatore. Ciano a sua volta sveglia Mussolini che se ne sta a Riccione e gli legge al telefono il messaggio: "Vi scrivo questa lettera in un momento in cui, finalmente, dopo mesi di preoccupazioni, di riflessioni e di continua attesa che mi ha logorato i nervi, sono stato portato a prendere la decisione più grave della mia vita [...].
Ho aspettato fino a questo momento, duce, per mandarvi tali informazioni perché la decisione definitiva non sarà presa prima di questa sera alle sette (Hitler ha scritto il messaggio nella mattinata del 21 giugno, nella Reichskanzlei). Qualunque cosa accada, duce, la nostra situazione non può peggiorare a causa di questo passo, essa può solo migliorare [...]. Lasciatemi dire ancora una cosa, duce: dopo che lottando sono giunto a questa decisione, mi sento di nuovo spiritualmente libero l’Unione Sovietica, malgrado l’assoluta sincerità dei nostri sforzi per venire a una definitiva conciliazione, era stato per me assai arduo perché in un modo o nell’altro ciò sembrava contrastare con tutto il mio atteggiamento precedente, con le mie concezioni e i miei precedenti impegni. Ora sono assai contento di essermi liberato di questo "disagio spirituale".
L’adesione di Mussolini all’iniziativa tedesca è immediata e totale. Ciano annota nel suo Diario lo stesso giorno: "Cerco di buon mattino l’ambasciatore dei Sovietici per notificargli la nostra dichiarazione di guerra. Non riesco a vederlo sino a mezzogiorno e mezzo perché lui, e con lui tutto il personale dell’ambasciata, se ne era andato candidamente a fare il bagno a Fregene". E aggiunge: "La cosa che più sta a cuore al duce è la partecipazione d’un nostro contingente, ma da quanto scrive Hitler è facile capire che questi ne farebbe volentieri a meno".
Hitler, infatti, gli manda a dire, con la solita prosa edulcorata "Il generale Marras mi ha comunicato che voi duce, mettereste a disposizione almeno un corpo di spedizione. Se tale è la vostra intenzione, duce, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare dato che in un teatro di guerra tanto vasto l’avanzata non può avvenire dappertutto contemporaneamente. L’aiuto decisivo, duce, lo potrete però sempre fornire con il rafforzare le vostre forze nell’Africa Settentrionale nonché intensificando la guerra aerea e, dove sia possibile, quella dei sottomarini nel Mediterraneo". Non è soltanto un "no" all’offerta italiana di aiuto, è anche una lezione impartita all’allievo pasticcione. Ma Mussolini vuole intervenire a ogni costo e il 26 giugno scrive quella che è una vera richiesta a Hitler di permettergli di essere al suo fianco: "Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta così che mi sia possibile passare alla fase esecutiva".
C’è da trasecolare. E tuttavia Hitler esita ancora ad accettare le profferte dell’amico. Il 30 giugno gli scrive quello che sembra quasi un lugubre avvertimento premonitore: "Duce, la lotta che si svolge da otto giorni mi offre la possibilità di comunicarvi già ora un quadro generale [...]. Sono otto giorni che una brigata corazzata sovietica viene attaccata, battuta, distrutta e nonostante ciò non si è rimarcata alcuna diminuzione nel loro numero e nella loro aggressività. Una vera sorpresa è stato un carro armato russo di cui non avevamo idea, un gigantesco carro armato di circa 52 tonnellate, con ottima corazzatura di circa 75 millimetri, contro il quale è necessario l’impiego di pezzi anticarro di grandissima potenza". Ma Mussolini non coglie l’avvertimento. Ciano nota "I nostri primi contingenti partiranno fra tre giorni. I1 Duce è molto eccitato all’idea di questa nostra partecipazione al conflitto e mi telefona che domani passerà in rassegna le truppe".
Viene così deciso da parte italiana di mandare sul fronte orientale un "Corpo di Spedizione Italiano in Russia" (CSIR) costituito da un corpo d’armata (e Ciano rileva "Sono preoccupato di un diretto confronto fra le nostre forze e quelle germaniche. Non per gli uomini che sono, o possono essere ottimi, ma per il materiale. Non vorrei che ancora una volta dovessimo fare la figura del parente povero"). In tutto tre divisioni, la Pasubio e la Torino di fanteria e la celere Amedeo d’Aosta.
Comandato dal generale Giovanni Messe, il CSIR inizia il trasferimento il 10 luglio. Dispone di 2900 ufficiali, 58 mila soldati, 4 mila quadrupedi, 5500 automezzi 51 aerei da caccia, 22 da ricognizione, 10 da trasporto. Luogo di radunata è Borsa, in Ungheria i 225 treni impiegheranno 25 giorni per portare laggiù le tre divisioni. Sul fiume Dnestr, infine, il corpo d’armata italiano si schiera con l’11 Armata tedesca ne fanno parte 1’11°, il 30°, il 4° e il 54° Corpo, la 3a Armata romena e reparti ungheresi. Gli italiani verranno impiegati come riserva mobile. Fin dal primo giorno, i carri leggeri di cui disponiamo ci espongono a sanguinose lezioni ma ci sono anche episodi di valore che entreranno nella storia (e nella leggenda) come quello della carica di Isbuscenskij compiuta dal Savoia Cavalleria il 24 agosto ‘42, nel bacino del Don e che l’Enciclopedia Britannica" descrive ancora oggi con queste efficacissime parole: "Forze in campo, il reggimento italiano Savoia Cavalleria (col. Bettoni) e due battaglioni sovietici. Durante la prima offensiva sovietica sul Don dell’estate 1942 il Savoia Cavalleria, raggiunte nel pomeriggio del 23 agosto le pendici di una collina nei pressi di Isbucenskij, viene stretto da preponderanti forze avversarie: con furiose cariche a cavallo, nelle prime ore del 24, gli italiani piombano sui due battaglioni sovietici e li sbaragliano".
All’alba di quel giorno il colonnello Alessandro Bettoni dette l’ordine di sfilare dalla custodia lo stendardo del reggimento e al trombettiere disse di tenersi pronto a suonare la carica.
Tutto intorno, nella pianura, si distinguevano i fuochi dei bivacchi russi: le linee nemiche che Bettoni aveva deciso di infrangere. L’attacco fu portato prima con le armi automatiche e con l’appoggio del gruppo di artiglieria, poi con l’intervento del II squadrone a cavallo.

All’antico grido di "Caricàt" risposero le sciabole sguainate. Come in una esercitazione in piazza d’armi, lo squadrone si allontanò al passo, si mise al trotto e si lanciò contro il nemico.

Il secondo squadrone piombò sul fianco sinistro dei sovietici, che non si attendevano un gesto tanto audace. "Eravamo ormai sui russi–racconterà un protagonista di quella epica carica–che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, che sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell’illusione di sottrarsi all’urto dei cavalli". Passato l’assalto, i sovietici ripresero il fuoco contro i cavalleggeri, che tornarono gettando bombe a mano. Toccò poi al mio squadrone eseguire una nuova carica. Ancora una volta sorpreso, il nemico finì per sbandarsi lasciando in mani italiane alcune centinaia di prigionieri. La irrompente energia delle tre cariche successive fu tale che i russi si convinsero evidentemente di avere di fronte non un solo reggimento, ma almeno due o tre, e le truppe che avevano attraversato il Don (la loro meta era Rostov, cui dovettero rinunciare rimandando l’azione di alcuni mesi) ripassarono disordinatamente il fiume.
La cavalleria aveva scritto la sua ultima pagina di gloria nello stile degli antichi. Molti degli ufficiali più valorosi erano caduti morti fra i girasoli con i loro fedeli cavalli. Ma il Savoia aveva vinto.
Purtroppo, il 7 novembre del ‘42, anniversario della Rivoluzione di Ottobre, i sovietici scatenarono la tremenda offensiva per occupare Stalingrado. I primi a subire il peso di quest’attacco sono i più deboli, e fra loro gli italiani: il Csir, nell’estate, è stato sostituito da una nuova, grande unità, l’Armir (Armata italiana in Russia), formata da 220.000 soldati e 7000 ufficiali, agli ordini prima del generale Gariboldi, poi a quelli di Messe.
Schierata sul Don l’Armir, dopo una serie di dure e sanguinose battaglie difensive, è investita dalla controffensiva sovietica di novembre che, riuscendo a far breccia fra lo schieramento italiano e quello romeno, costringe l’Amir a ripiegare. Le nostre colonne si ritirano durante dodici giorni e undici notti su un percorso 250 chilometri fuori strada, battendo cioè la pista fra la neve alta, con una media quotidiana di sedici ore di marcia. La fame, il freddo (quasi sempre intorno ai 30 gradi sotto lo zero), la stanchezza e i ripetuti attacchi dei partigiani sovietici aggravano le perdite iniziali per cui dalla sacca riescono a fuggire soltanto 6.500 uomini della divisione Tridentina, 3.200 della Julia e 1.300 della Cuneense.
E un disastro senza precedenti: se nell’estate ‘42 oltre duecento lunghe tradotte avevano trasportato dall’Italia alla Russia il corpo d’armata alpino, nella primavera del ‘43 ne basteranno soltanto diciassette, e piccole, a rimpatriare i superstiti. Emblema nazionale di quella disfatta nelle nevi del Don saranno le spaventose perdite della Cuneense: la divisione, che al 30 settembre ‘42 contava 15.846 uomini di truppa, 542 ufficiali e 681 sottufficiali, registra 13.470 fra morti e dispersi 2.180 fra feriti e congelati, pari a un totale di 15.650 uomini.
Un corpo d’armata alpino mandato allo sbaraglio, senza indumenti invernali, senza armi adeguate, senza nemmeno sapere dove e come sarebbe stato impiegato dai tedeschi soltanto per un altro criminale sogno imperialista di Mussolini: "Caro Messe–ha detto il duce al comandante dell’Armir–: al tavolo della pace peseranno molto i suoi 200.000 uomini".
Nel Libro "La strada del Davai", comparso anni fa da Einaudi e che rimane documento unico per capire la tragedia del corpo d’armata alpino, sul Don, lo scrittore Nuto Revelli ha raccolto una quarantina di testimonianze, tra cui quelle di diversi reduci dai campi di prigionia russi Sono contadini, operai, artigiani che raccontano per esteso la loro odissea militare, di cui la campagna di Russia fu solo il tragico epilogo, e che offrono soprattutto ai giovani la possibilità di conoscere anche nei dettagli altre disperate vicende della ritirata della Cuneense.
Guido Castellino, classe 1922, di Villanova Mondovi, narra come sfogliasse le pagine di un diario di sangue: "17 gennaio. Alle sedici è già notte, si grida "si parte". Caos, alpini che bestemmiano, abbandoniamo il rancio che d’altra parte non si aveva nemmeno voglia di mangiare. Camminiamo l’intera notte.
"18 gennaio. All’improvviso aerei effettuano due o tre picchiate, mitragliano la colonna, è una strage, ci sparpagliamo nella steppa. Raccogliamo i feriti fino a sera Poi occorre proseguire, allora arriva l’ordine di buttare il materiale superfluo, di abbandonare i feriti e i congelati. Scene strazianti, i feriti e i congelati urlano di non abbandonarli. Ma i sani gridano "avanti, avanti che rompiamo la sacca" E così faremo ogni notte.
"19 gennaio. All’alba a Popovka attacco di carri armati russi. Gli artiglieri si battono bene, i nostri pezzi sparano a zero. Poi è la fine; muoiono quasi tutti. 20 gennaio. Dall’alto delle colline i partigiani sparano, alle nostre spalle i carri armati premono. A più riprese gli aerei scendono a mitragliare. Una catastrofe di alpini morti. Si dice che fossimo in settemila, ne usciamo vivi meno di un terzo. Dopo il grande macello si riprende la marcia. Il freddo è sempre sui 35-40 gradi sotto zero, tormenta a non finire. Ancora carri armati, partigiani, aerei. Alpini a piedi scalzi, i piedi congelati neri come il carbone. Senza le scarpe camminano come se avessero le gambe di legno; con le scarpe non si sarebbero trascinati più di un metro. Abbandoniamo ancora feriti e congelati.
Non ho parole per ricordare le grida dei moribondi. Mi sono rimaste nelle orecchie le urla dei feriti" Fra i pochi superstiti c’è però anche chi testimonia l’umanità dei partigiani sovietici verso i nostri alpini (per i tedeschi non c’era pietà) e l’aiuto della popolazione, della fetta di pane nero o della patata lessa divisa da chi era alla fame. Dice Marco Duberti, classe 1914, di Viola: "Ci prendono tutti prigionieri alpini e tedeschi. Un partigiano mi strappa le giberne. Mi dice "sei italiano" "SÌ", rispondo. "Fascista?" "Niet fascista, alpinist" e piango. I settanta tedeschi vengono raggruppati in disparte e così pure noi italiani. Otto tedeschi vengono separati dal gruppo. Gli altri tedeschi devono inquadrarsi per sei, a ridosso di un’isba. Due partigiani li mitragliano con i parabellum. Avanzano gli otto tedeschi superstiti, con i badili coprono di neve i compagni vivi o morti. Poi un giovane partigiano si avvicina a me, mi dice: "Siete proprio italiani?" "Da, da, italiani. Adesso anche noi kaput?" "Italianski, niet kaput –dicono i partigiani–nas rabotà, Caucaso, vi mandiamo a lavorare nel Caucaso". Donne ucraine Ci portano qualche patata lessa Anche loro hanno i figli che soffrono al fronte".

 













Sopra, Il generale Messe ispeziona
le truppe sul fronte russo.
Qui sotto, il colonnello Bettoni,
comandante del Savoia Cavalleria,°
Il reggimento del Csir che con
una carica eroica quanto disperata,
riusci a rompere l'accerchiamento
dei sovietici nella battaglia
di Isbscenskij.

































Il Generale Gariboldi che aveva assunto
il comando delle forze
italiane al momento della costituzione
dell' Armir e in seguito era stato
sostituito dal generale Messe




















Una marea umana si incammina verso una meta sconosciuta. Ma bisogna
affrettarsi, per sfuggire all'accerchiamento, rinunciare a tutto ciò che non è
strettamente necessario, abbandonare i feriti e gli ammalati. Poi verranno gli
attacchi degli aerei sovietici,le puntate offensive dei partigiani, le notti senza sonno
per evitare il congelamento
.

(tratto da: "La seconda guerra mondiale" Parlano i Protagonisti di Enzo Biagi — edito dalla RCS Edizione Quotidiani S.p.A.

 


In ricordo degli Alpini dispersi in Russia
riportiamo le parole di una bellissima canzone

Il bersaglier ha cento penne
ma l’alpin ne ha una sola
un po’ più lunga un po’ più mora,
sol l’alpin l’ha può portar.
Quando scende giù la neve
la tormenta dell’inverno,
ma se cadesse anche l’inferno
sol l’alpin lassù a vegliar.
Ma se cade dalle rocce
non piangetelo nei cuori
perché se cade, cade tra i fiori
non gli importa di morir.

Proverbi&Pensieri  Madre Teresa di Calcutta  I   i nòster vecc   I   Ricòrd de Russia   I  Don Gnocchi