Mussolini
viene informato dellaggressione tedesca alla Russia
la notte sul 22 giugno 1941, non più di mezzora
prima che le truppe germanichee le unità satelliti
romene, ungheresi e slovacchepassino allattacco
su tutto il fronte dal Baltico al Mar Nero. È lambasciatore
Von Bismarck a svegliare Ciano e a consegnargli la lunga missiva
scritta dal Fuhrer per il suo collega dittatore. Ciano a sua
volta sveglia Mussolini che se ne sta a Riccione e gli legge
al telefono il messaggio: "Vi scrivo questa lettera in
un momento in cui, finalmente, dopo mesi di preoccupazioni,
di riflessioni e di continua attesa che mi ha logorato i nervi,
sono stato portato a prendere la decisione più grave
della mia vita [...].
Ho aspettato fino a questo momento, duce, per mandarvi tali
informazioni perché la decisione definitiva non sarà
presa prima di questa sera alle sette (Hitler ha scritto il
messaggio nella mattinata del 21 giugno, nella Reichskanzlei).
Qualunque cosa accada, duce, la nostra situazione non può
peggiorare a causa di questo passo, essa può solo migliorare
[...]. Lasciatemi dire ancora una cosa, duce: dopo che lottando
sono giunto a questa decisione, mi sento di nuovo spiritualmente
libero lUnione Sovietica, malgrado lassoluta sincerità
dei nostri sforzi per venire a una definitiva conciliazione,
era stato per me assai arduo perché in un modo o nellaltro
ciò sembrava contrastare con tutto il mio atteggiamento
precedente, con le mie concezioni e i miei precedenti impegni.
Ora sono assai contento di essermi liberato di questo "disagio
spirituale".
Ladesione di Mussolini alliniziativa tedesca è
immediata e totale. Ciano annota nel suo Diario lo stesso
giorno: "Cerco di buon mattino lambasciatore dei
Sovietici per notificargli la nostra dichiarazione di guerra.
Non riesco a vederlo sino a mezzogiorno e mezzo perché
lui, e con lui tutto il personale dellambasciata, se
ne era andato candidamente a fare il bagno a Fregene".
E aggiunge: "La cosa che più sta a cuore al duce
è la partecipazione dun nostro contingente, ma
da quanto scrive Hitler è facile capire che questi
ne farebbe volentieri a meno".
Hitler,
infatti, gli manda a dire, con la solita prosa edulcorata
"Il generale Marras mi ha comunicato che voi duce, mettereste
a disposizione almeno un corpo di spedizione. Se tale è
la vostra intenzione, duce, vi sarà abbastanza tempo
per poterla realizzare dato che in un teatro di guerra tanto
vasto lavanzata non può avvenire dappertutto
contemporaneamente. Laiuto decisivo, duce, lo potrete
però sempre fornire con il rafforzare le vostre forze
nellAfrica Settentrionale nonché intensificando
la guerra aerea e, dove sia possibile, quella dei sottomarini
nel Mediterraneo". Non è soltanto un "no"
allofferta italiana di aiuto, è anche una lezione
impartita allallievo pasticcione. Ma Mussolini vuole
intervenire a ogni costo e il 26 giugno scrive quella che
è una vera richiesta a Hitler di permettergli di essere
al suo fianco: "Sono pronto a contribuire con forze terrestri
ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi
una risposta così che mi sia possibile passare alla
fase esecutiva".
Cè da trasecolare. E tuttavia Hitler esita ancora
ad accettare le profferte dellamico. Il 30 giugno gli
scrive quello che sembra quasi un lugubre avvertimento premonitore:
"Duce, la lotta che si svolge da otto giorni mi offre
la possibilità di comunicarvi già ora un quadro
generale [...]. Sono otto giorni che una brigata corazzata
sovietica viene attaccata, battuta, distrutta e nonostante
ciò non si è rimarcata alcuna diminuzione nel
loro numero e nella loro aggressività. Una vera sorpresa
è stato un carro armato russo di cui non avevamo idea,
un gigantesco carro armato di circa 52 tonnellate, con ottima
corazzatura di circa 75 millimetri, contro il quale è
necessario limpiego di pezzi anticarro di grandissima
potenza". Ma Mussolini non coglie lavvertimento.
Ciano nota "I nostri primi contingenti partiranno fra
tre giorni. I1 Duce è molto eccitato allidea
di questa nostra partecipazione al conflitto e mi telefona
che domani passerà in rassegna le truppe".
Viene così deciso da parte italiana di mandare sul
fronte orientale un "Corpo di Spedizione Italiano in
Russia" (CSIR) costituito da un corpo darmata (e
Ciano rileva "Sono preoccupato di un diretto confronto
fra le nostre forze e quelle germaniche. Non per gli uomini
che sono, o possono essere ottimi, ma per il materiale. Non
vorrei che ancora una volta dovessimo fare la figura del parente
povero"). In tutto tre divisioni, la Pasubio e
la Torino di fanteria e la celere Amedeo dAosta.
Comandato dal generale Giovanni Messe, il CSIR inizia il trasferimento
il 10 luglio. Dispone di 2900 ufficiali, 58 mila soldati,
4 mila quadrupedi, 5500 automezzi 51 aerei da caccia, 22 da
ricognizione, 10 da trasporto. Luogo di radunata è
Borsa, in Ungheria i 225 treni impiegheranno 25 giorni per
portare laggiù le tre divisioni. Sul fiume Dnestr,
infine, il corpo darmata italiano si schiera con l11
Armata tedesca ne fanno parte 111°, il 30°,
il 4° e il 54° Corpo, la 3a Armata romena e reparti
ungheresi. Gli italiani verranno impiegati come riserva mobile.
Fin dal primo giorno, i carri leggeri di cui disponiamo ci
espongono a sanguinose lezioni ma ci sono anche episodi di
valore che entreranno nella storia (e nella leggenda) come
quello della carica di Isbuscenskij compiuta dal Savoia Cavalleria
il 24 agosto 42, nel bacino del Don e che lEnciclopedia
Britannica" descrive ancora oggi con queste efficacissime
parole: "Forze in campo, il reggimento italiano Savoia
Cavalleria (col. Bettoni) e due battaglioni sovietici. Durante
la prima offensiva sovietica sul Don dellestate 1942
il Savoia Cavalleria, raggiunte nel pomeriggio del 23 agosto
le pendici di una collina nei pressi di Isbucenskij, viene
stretto da preponderanti forze avversarie: con furiose cariche
a cavallo, nelle prime ore del 24, gli italiani piombano sui
due battaglioni sovietici e li sbaragliano".
Allalba di quel giorno il colonnello Alessandro Bettoni
dette lordine di sfilare dalla custodia lo stendardo
del reggimento e al trombettiere disse di tenersi pronto a
suonare la carica.
Tutto intorno, nella pianura, si distinguevano i fuochi dei
bivacchi russi: le linee nemiche che Bettoni aveva deciso
di infrangere. Lattacco fu portato prima con le armi
automatiche e con lappoggio del gruppo di artiglieria,
poi con lintervento del II squadrone a cavallo.
Allantico
grido di "Caricàt" risposero le sciabole
sguainate. Come in una esercitazione in piazza darmi,
lo squadrone si allontanò al passo, si mise al trotto
e si lanciò contro il nemico.
Il secondo
squadrone piombò sul fianco sinistro dei sovietici,
che non si attendevano un gesto tanto audace. "Eravamo
ormai sui russiracconterà un protagonista di
quella epica caricache ci balzavano incontro, chi
cercando di colpirci, che sollevando le braccia in segno
di resa, chi correndo alla cieca nellillusione di
sottrarsi allurto dei cavalli". Passato lassalto,
i sovietici ripresero il fuoco contro i cavalleggeri, che
tornarono gettando bombe a mano. Toccò poi al mio
squadrone eseguire una nuova carica. Ancora una volta sorpreso,
il nemico finì per sbandarsi lasciando in mani italiane
alcune centinaia di prigionieri. La irrompente energia delle
tre cariche successive fu tale che i russi si convinsero
evidentemente di avere di fronte non un solo reggimento,
ma almeno due o tre, e le truppe che avevano attraversato
il Don (la loro meta era Rostov, cui dovettero rinunciare
rimandando lazione di alcuni mesi) ripassarono disordinatamente
il fiume.
La cavalleria aveva scritto la sua ultima pagina di gloria
nello stile degli antichi. Molti degli ufficiali più
valorosi erano caduti morti fra i girasoli con i loro fedeli
cavalli. Ma il Savoia aveva vinto.
Purtroppo, il 7 novembre del 42, anniversario della
Rivoluzione di Ottobre, i sovietici scatenarono la tremenda
offensiva per occupare Stalingrado. I primi a subire il
peso di questattacco sono i più deboli, e fra
loro gli italiani: il Csir, nellestate, è
stato sostituito da una nuova, grande unità, lArmir
(Armata italiana in Russia), formata da 220.000 soldati
e 7000 ufficiali, agli ordini prima del generale Gariboldi,
poi a quelli di Messe.
Schierata sul Don lArmir, dopo una serie di dure e
sanguinose battaglie difensive, è investita dalla
controffensiva sovietica di novembre che, riuscendo a far
breccia fra lo schieramento italiano e quello romeno, costringe
lAmir a ripiegare. Le nostre colonne si ritirano durante
dodici giorni e undici notti su un percorso 250 chilometri
fuori strada, battendo cioè la pista fra la neve
alta, con una media quotidiana di sedici ore di marcia.
La fame, il freddo (quasi sempre intorno ai 30 gradi sotto
lo zero), la stanchezza e i ripetuti attacchi dei partigiani
sovietici aggravano le perdite iniziali per cui dalla sacca
riescono a fuggire soltanto 6.500 uomini della divisione
Tridentina, 3.200 della Julia e 1.300 della Cuneense.
E un disastro senza precedenti: se nellestate 42
oltre duecento lunghe tradotte avevano trasportato dallItalia
alla Russia il corpo darmata alpino, nella primavera
del 43 ne basteranno soltanto diciassette, e piccole,
a rimpatriare i superstiti. Emblema nazionale di quella
disfatta nelle nevi del Don saranno le spaventose perdite
della Cuneense: la divisione, che al 30 settembre 42
contava 15.846 uomini di truppa, 542 ufficiali e 681 sottufficiali,
registra 13.470 fra morti e dispersi 2.180 fra feriti e
congelati, pari a un totale di 15.650 uomini.
Un corpo darmata alpino mandato allo sbaraglio, senza
indumenti invernali, senza armi adeguate, senza nemmeno
sapere dove e come sarebbe stato impiegato dai tedeschi
soltanto per un altro criminale sogno imperialista di Mussolini:
"Caro Messeha detto il duce al comandante dellArmir:
al tavolo della pace peseranno molto i suoi 200.000 uomini".
Nel Libro "La strada del Davai", comparso anni
fa da Einaudi e che rimane documento unico per capire la
tragedia del corpo darmata alpino, sul Don, lo scrittore
Nuto Revelli ha raccolto una quarantina di testimonianze,
tra cui quelle di diversi reduci dai campi di prigionia
russi Sono contadini, operai, artigiani che raccontano per
esteso la loro odissea militare, di cui la campagna di Russia
fu solo il tragico epilogo, e che offrono soprattutto ai
giovani la possibilità di conoscere anche nei dettagli
altre disperate vicende della ritirata della Cuneense.
Guido Castellino, classe 1922, di Villanova Mondovi, narra
come sfogliasse le pagine di un diario di sangue: "17
gennaio. Alle sedici è già notte, si grida
"si parte". Caos, alpini che bestemmiano, abbandoniamo
il rancio che daltra parte non si aveva nemmeno voglia
di mangiare. Camminiamo lintera notte.
"18 gennaio. Allimprovviso aerei effettuano due
o tre picchiate, mitragliano la colonna, è una strage,
ci sparpagliamo nella steppa. Raccogliamo i feriti fino
a sera Poi occorre proseguire, allora arriva lordine
di buttare il materiale superfluo, di abbandonare i feriti
e i congelati. Scene strazianti, i feriti e i congelati
urlano di non abbandonarli. Ma i sani gridano "avanti,
avanti che rompiamo la sacca" E così faremo
ogni notte.
"19 gennaio. Allalba a Popovka attacco di carri
armati russi. Gli artiglieri si battono bene, i nostri pezzi
sparano a zero. Poi è la fine; muoiono quasi tutti.
20 gennaio. Dallalto delle colline i partigiani sparano,
alle nostre spalle i carri armati premono. A più
riprese gli aerei scendono a mitragliare. Una catastrofe
di alpini morti. Si dice che fossimo in settemila, ne usciamo
vivi meno di un terzo. Dopo il grande macello si riprende
la marcia. Il freddo è sempre sui 35-40 gradi sotto
zero, tormenta a non finire. Ancora carri armati, partigiani,
aerei. Alpini a piedi scalzi, i piedi congelati neri come
il carbone. Senza le scarpe camminano come se avessero le
gambe di legno; con le scarpe non si sarebbero trascinati
più di un metro. Abbandoniamo ancora feriti e congelati.
Non ho parole per ricordare le grida dei moribondi. Mi sono
rimaste nelle orecchie le urla dei feriti" Fra i pochi
superstiti cè però anche chi testimonia
lumanità dei partigiani sovietici verso i nostri
alpini (per i tedeschi non cera pietà) e laiuto
della popolazione, della fetta di pane nero o della patata
lessa divisa da chi era alla fame. Dice Marco Duberti, classe
1914, di Viola: "Ci prendono tutti prigionieri alpini
e tedeschi. Un partigiano mi strappa le giberne. Mi dice
"sei italiano" "SÌ", rispondo.
"Fascista?" "Niet fascista, alpinist"
e piango. I settanta tedeschi vengono raggruppati in disparte
e così pure noi italiani. Otto tedeschi vengono separati
dal gruppo. Gli altri tedeschi devono inquadrarsi per sei,
a ridosso di unisba. Due partigiani li mitragliano
con i parabellum. Avanzano gli otto tedeschi superstiti,
con i badili coprono di neve i compagni vivi o morti. Poi
un giovane partigiano si avvicina a me, mi dice: "Siete
proprio italiani?" "Da, da, italiani. Adesso anche
noi kaput?" "Italianski, niet kaput dicono
i partigianinas rabotà, Caucaso, vi mandiamo
a lavorare nel Caucaso". Donne ucraine Ci portano qualche
patata lessa Anche loro hanno i figli che soffrono al fronte".
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